Con la mente, con il cuore

Quando raggiungi, alla fine di un duro cammino, un masso isolato, lassù, in alto, sulla montagna e scoprì che qualcuno, non si sa quando, ci era arrivato ben prima di te per lasciarvi segni, incisioni, coppelle, immagini dipinte con pigmenti ocra… passata l’emozione del ritrovamento o della conquista, mentre guardi e rimiri il manufatto non può che coglierti, ad un tratto, lo sgomento di non riuscire in alcun modo ad afferrare quel che aveva il suo ignoto autore nel cuore, nella testa, nella pancia quando lo fece. O forse ti pare, di tanto in tanto di intuire qualcosa, che poi però sfugge. O ancora ti prende la ribellione verso quell’incapacità di capire e ti sforzi inutilmente di formulare una spiegazione.

Capita spesso. Capita cercando di penetrare i “misteri” dell’alchimia, di un rito cristiano o di certi cavalieri furbacchioni, di spiegare come gli Egizi potessero sollevare blocchi di settanta tonnellate senza neppure una ruota o i Babilonesi dalla polvere terrosa concepire la Porta di Ishtar.

Certo, finché sono oggetti o comportamenti riconducibili al vivere quotidiano, la soluzione sembra semplice. Lungi dal voler criticare l’importante e imprescindibile opera di chi vi si è cimentato, un contenitore rimane, per questi “tecnici”, pur sempre un contenitore, che sia un’anfora, un vasetto per balsami, un’urna oppure un’olpe. Impermeabilizzato all’interno serve a conservare liquidi e solidi, bruciacchiato all’esterno probabilmente è una pentola. Quanto alla forma, se non ha un qualche inatteso scopo pratico, è senza dubbio un vezzo, un capriccio o una tendenza artistica da usarsi come “guida” per altri ritrovamenti simili.

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Ci si azzarda a interpretare secondo il “contesto”, il luogo di ritrovamento (tomba, casa o tempio?), lo strato geologico e gli altri oggetti insieme ai quali viene ritrovato. Ma, alla fin fine – e non è neppur sbagliato – si va sempre per prudenza, organicità e sistematicità, cioè per riduzione e approssimazione a enti noti. Viene così restituita all’umanità una visione che, pur preziosa, non è che la vista, deformata, della fotografia di una realtà, osservata attraverso l’occhio vitreo e immobile di un cannocchiale. Gli antichi, dicono, non li capiremo mai.

Non sarà invece che sia tutto un gigantesco, madornale svarione, dal quale nessuno, in verità può dirsi mondato? Non sarà che Cartesio ci abbia portati fuori di strada? E pure il metodo scientifico, checché se ne dica, trae in inganno. Fondandosi sull’approssimazione, sul costruire teorie parziali, ognuna delle quali è più precisa della precedente ma mai risolutiva, “riduce” il fenomeno a un modello trascurando i particolari e crea, ogni volta che esclude, un nuovo errore destinato a sommarsi agli altri.

Così, non facciamo che sforzarci di spiegare, di giustificare. Dividiamo e creiamo classificazioni, separiamo e prepariamo nuove scatole in cui incasellare la conoscenza, rifugiandoci però, quasi come fosse un alibi, nella nostra totale incapacità di capire l’uomo antico.

Senza dubbio le nostre categorie mentali non sono le sue e viceversa. Procedendo a ritroso, infatti, non si può non osservare come l’essere umano del passato fosse interessato a un’esperienza diretta e “pratica” dell’esistenza, al contrario del moderno, in cerca di una conoscenza intellettiva e “teorica”. Dagli Egizi ai popoli vedici, ai precolombiani, passando per l’animismo africano, è ben evidente la propensione a ricondurre tutto ad una unità originaria piuttosto che a frammentare, a evidenziare i collegamenti fra le cose, fra gli esseri, più che a spiegarli.>

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Le prime figurazioni che l’uomo antico ha prodotto per rappresentare “qualcosa” fuori dal proprio essere sono figure “umanoidi”, le celebri “veneri”. Non c’era in questo alcun tentativo di porsi al centro di tutto ma la volontà di usare tratti umani solo come mezzo di comprensione.

L’uomo antico sapeva di essere immerso, come qualunque cosa esistente, in un tutto che è sempre identico a sé stesso e insieme mutevole in ogni sua manifestazione. E se tutto stava in ogni sua parte, anche infinitesimale, poteva dunque fare buon uso di ciò che conosceva meglio, sé stesso, per rappresentare e rappresentarsi tutto l’esistente. Si dice spesso che l’uomo si sia inventato il divino per solitudine, scambiando per solitudine il suo e essere con ogni cosa indistintamente. Eppure nel fondo delle caverne di Chauvet e più tardi di Lascaux o di Altamira, dipinse con straordinaria delicatezza le movenze di mille creature, lasciando di sé solo ciò che voleva rimanesse. Lo fece con tale perizia e attenzione che le grotte e i dipinti si sono conservati per decine di migliaia di anni, ma poi è bastato il fiato di qualche ricercatore perché rischiassero di andare distrutti. Non aveva alcun bisogno di creare divinità poiché ne era parte ed in esse si riconosceva, riconoscendo insieme il suo essere nel mondo.

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Forse il greco Omero, come si dice, o quel gruppo di cantori ellenici che composero, come fossero uno solo, gli ultimi poemi degli dei e degli uomini, ancora riconoscevano l’unità del mondo, “il grande tutto che tutto comprende” e dalla “voce” dei suoi prìncipi udivano le gesta degli eroi. Dopo di loro nulla più. Come se un nuovo dio, questo sì creato dall’uomo avesse preso dimora nella sua testa, facendogli infine perdere il ricordo di sé.

Ed ecco che, da allora e solo da allora l’uomo ha cominciato a provare la solitudine dell’estromesso dall’Eden, il vuoto della non-oggettività, l’apatia della deriva. E tutt’oggi, se non si abbandona a far diventare ogni segno un’astronauta, ogni graffio un portale e ogni pietra un razzo spaziale proiettato verso altre dimensioni, in un tripudio di sussurri auto-confortanti e di pretese di consapevolezza, non può che affannarsi a tentare di spiegare con la mente ciò che prima comprendeva con il cuore, sapendo che forse non vi riuscirà mai…

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BIBLIOGRAFIA

Franco Mezzena, Considerazioni sulle coppelle in Aa. Vv., La preistoria dell’arte, Antiquarium Mergozzo, 1976

Fritjof Capra, Il Tao della fisica, Adelphi 1989

Julian Jaynes, Il crollo della mente bicamerale e la nascita della coscienza, 1976

Demetrio Iero e Adriana Pesante, Il Sapere in Esilio, 2000


 

APPROFONDIMENTI:

Mura poligonali: quando l’uomo coglieva le stelle – www.francescoteruggi.com


 

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